Un anticipo di punciuta

[Questo post nasce per gemmazione: originariamente era in chiusura di #Belzefù. Ma ci stava come i cavoli a merenda: quindi lo ricopio interamente qui]

Lo so che a questo punto toccherebbe chiudere il post, ma c’è una cosa sfiziosa che mi va di scrivere…anche se c’entra poco.

Per deformazione culturale, mi ha sempre intrigato il connubio tra Andreotti e la mafia. Che è molto più longevo di quanto comunemente si creda: le loro traiettorie si erano incrociate già prima di qualsiasi delle datazioni “ufficiali” (tipicamente il momento in cui Lima, plenipotenziario Dc siciliano, lascia la corrente di Fanfani e aderisce alla “cattiva corrente” andreottiana, intorno al 1967).

Si sa che Andreotti ha ricoperto la carica di ministro dell’Interno, ad interim, dall’11 maggio al 13 giugno 1978. Al ritrovamento del cadavere di Moro, Cossiga si era dimesso da quell’incarico, assunto 2 mesi prima in occasione della nascita del governo del Divo. Difatti il 16 marzo 1978, giorno del rapimento Moro, il governo Andreotti ottiene la fiducia: votano contro soltanto liberali, missini, radicali e demoproletari. L’esecutivo è un monocolore DC che si regge grazie all’astensione dei comunisti (il cosiddetto governo della “non sfiducia”).

Si ricorda meno spesso che ministro dell’Interno lo era già stato dal 18 gennaio 1954 al 10 febbraio 1954….(avete tempo da perdere? Scorretevi la lista di tutti gli incarichi di questo I governo Fanfani, che non ottenne mai la fiducia del Parlamento, e giocate a contare quanti ne riconoscete. A parte il Divo, io sono arrivato a 7….).

Ossia: era ministro dell’Interno, e quindi a capo dei servizi segreti civili (con Taviani, alla Difesa, a capo di quelli militari), il 9 febbraio 1954, giorno dell’omicidio in carcere di Gaspare Pisciotta (i più attenti lo avranno notato nell’elenco delle vittime eccellenti più sopra, se non altro perché è il nome meno “conosciuto”): bevve del caffè alla stricnina, come successe a Sindona 32 anni dopo.

Pisciotta era il vice del bandito Salvatore Giuliano nella banda omonima. È considerato il responsabile del tradimento che culmina con l’uccisione del bandito. E la banda in questione, in questo gioco di specchi riflessi, è quella che esegue la parte “operativa” della strage di Portella della Ginestra. Di più: le due morti, di Giuliano e di Pisciotta, sembrano strettamente legate a quanto da loro asserito sul contesto in cui “matura” la strage.

E qui si entra in una commedia pirandelliana: perché Giuliano, nella fase di sedicente colonnello dell’EVIS, manda una lettera nientepopòdimeno che al presidente degli USA, Truman, pochi giorni prima della strage; perché l’esperienza dell’EVIS è legata a rapporti intensi con reduci della famigerata X MAS di Borghese; perché Giuliano aveva cominciato a tirare in ballo la figura di Scelba, qualche anno dopo; perché al processo per Portella della Ginestra, Pisciotta chiamerà in causa Bernardo Mattarella (che Giuseppe Fava descriverà come padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone ne “I cento padroni di Palermo”) e Scelba come mandanti diretti della strage. Perché nel memoriale di Giuliano si leggono passi tipo questo:

<<Servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e carabinieri eravamo la stessa cosa>>.

Non so quanto mi seguite, capisco la fatica. Però, se posso, leggetelo à la Camilleri! D’altronde Camilleri non ha mai nascosto la propria venerazione per Pirandello, e questa storia è esattamente la trasposizione, teatrale e reale insieme, della tragicommedia pirandelliana.

Il meno che mi aspetto è che mi riconosciate la plausibilità di spostare all’indietro, almeno al 1954, la datazione del primo incontro del Divo con il fenomeno mafioso.

Ovvero: appare nel finale del proscenio dell’evento che chiude quel decennio scarso in cui in Sicilia si è combattuta la battaglia che ha determinato gli assetti istituzionali di tutta la prima repubblica e i relativi rapporti di forza.

Sarà oggetto di un altro post (paura….vé!!!), che sennò corro il rischio di dare un sacco di importanza al Divo in conclusione di un post in cui mi sono impegnato per dimostrare la tesi opposta.

Basti questo accenno:

  • è il decennio in cui il Sud è in subbuglio per la riforma agraria contro il latifondo;
  • in cui la Cgil, unitaria fino al 1950 – anno in cui nascono per gemmazione Cisl e Uil, è il perno organizzativo e operativo della maggior parte delle agitazioni rivendicative dai parte dei lavoranti della terra;
  • in cui il Pci e il Psi si rendono conto dell’importanza strategica di quel territorio, della sua struttura sociale e della rappresentanza effettiva delle loro istanze, da combinare con quelle del “Nord operaio” (semplifico al massimo), e sono presenze attive sul territorio.

La Sicilia del primissimo dopoguerra è il luogo, tra le regioni meridionali, dove questa lotta egemonica è più aperta, e quindi più violenta. Ma anche dove, vi stupirò ne sono sicuro, il lavoro di agitazione sindacale e politica stava venendo premiato anche in termini elettorali: alle elezioni regionali siciliane del 1947 l’alleanza Pci-Psi denominata Blocco del Popolo aveva superato il 30% (con la Dc poco sopra al 20%, con altre due formazioni di sinistra con un ulteriore 5%) e costituiva il gruppo di maggioranza relativa all’assemblea regionale.

Che questo risultato politico abbia pesato nella scelta di procedere ad una strage collettiva in un giorno di festa doppia, quella del lavoro del 1° maggio a cui si erano aggiunti i festeggiamenti per le elezioni regionali; perdipiù, con una modalità esecutiva che richiamava quella degli eccidi nazifascisti nel Centro-Nord di qualche anno prima, è la chiave di lettura ora più comunemente accettata in ambito storico (la tesi di Scelba fu sempre che si trattava di un evento dalle dinamiche esclusivamente locali).

Chiudo per il momento: in linea con la tesi di #Belzefù e in ossequio alla smemoratezza che lo ha sempre contraddistinto in ciascuna della trentina di convocazioni della giunta per le autorizzazioni a procedere, Andreotti potrebbe essere ritratto come il nobilissimo antesignano di Paolini: Gabriele Paolini, quel tizio che ha elevato l’irruzione nei servizi televisivi a scopo di vita.